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Rawls e la pubblicità

Nel precedente post, ho criticato la spiegazione e la difesa del vincolo di pubblicità in Rawls da parte di A. Williams. Ora invece provo a spiegare per quali ragioni, secondo me, la pubblicità è rilevante.

Lo scopo della teoria dei giochi è quello di scoprire le conseguenze delle linee di condotta razionali (ad esempio scoprire se danno luogo a equilibrii). Perché la conoscenza comune viene assunta come vincolo? Non ne ho idea. Forse, tiro a indovinare, perché la teoria vuole essere rilevante nella pratica, e si suppone che nella gran parte dei contesti strategici interessanti la conoscenza comune sia data (almeno approssimativamente).

Nel caso della giustizia le cose non stanno allo stesso modo. Infatti Rawls è esplicito nell’ammettere che la pubblicità non è sempre una condizione in cui le istituzioni reali si trovano. Egli scrive
“senza dubbio questa condizione non è sempre soddisfatta dalle istituzioni effettive, ma è un’assunzione ragionevolmente semplificatrice.”
Egli scrive anche “assumerò in seguito che i principi vengano scelti a condizione che si sappia che essi devono essere pubblici. Questa è una condizione naturale per una teoria contrattualista.”
Più avanti quando Rawls parla della pubblicità come vincolo per i principi, egli riconosce che si tratti di una aspirazione kantiana. I riferimento a Kant di Rawls sono “Perpetual Peace, appendix II” e “The Metaphysics of Morals, pt. 1, §43.
Il motivo per cui la mutua conoscenza è importante per Rawls non è facile da comprendere.
Rawls scrive
“la funzione della condizione di pubblicità è quella di costringere le parti a valutare le condizioni della giustizia come pubblicamente riconosciute, in quanto costituzioni morali pienamente efficaci nella vita sociale. La condizione di pubblicità è chiaramente implicita nella dottrina kantiana dell’imperativo categorico, in quanto ci impone di agire in accordo con i principi che, in quanto esseri razionali, vorremmo far valere come legge in un regno dei fini. Egli considerava questo regno come una specie di comunità etica, che abbia tali principi morali come statuto pubblico”

Rawls vuole escludere che possano essere scelti principi morali che possono essere realizzati solo quando il loro contenuto è tenuto nascosto ai più. In pratica vuole rifiutare l’idea di morale esoterica con cui flirta Sigdwick in relazione al principio di utilità (Sidgwick afferma che l’utilitarismo giustifica la possibilità di una morale esoterica,  e che questa sia “paradossale”). In una morale esoterica il contenuto della vera morale deve essere conosciuto solo da un manipolo di filosofi. Essi non cercano di diffondere la vera morale tra i comuni mortali, ma al contrario difendono in pubblico una morale diversa da quella vera seguendo la quale è più probabile che i comuni mortali realizzeranno i fini di quest’ultima.

Ma per quali ragioni? Per quello che Rawls ha detto fino a qui, abbiamo poco più che un richiamo all’autorità di Kant.

Si potrebbe pensare che Rawls imponga il vincolo di pubblicità allo scopo di garantire una maggiore stabilità.

Apparentemente, questa tesi sembra contraddire il ruolo della pubblicità come vincolo. Concepire la pubblicità come vincolo significa porsi la seguente domanda: un principio può produrre una società stabile, qualora sia pubblico? Se il criterio ultimo fosse la stabilità e la pubblicità fosse solo strumentale, la domanda da porsi sarebbe la seguente: un principio può produrre una società stabile, ed è necessario che, a tal fine, esso sia pubblico?

Più avanti Rawls sembra spiegare meglio quello che ha in mente.
Egli scrive che “il concetto di contratto possiede un ruolo definito: esso suggerisce le condizioni di pubblicità e pone limiti a ciò che può essere oggetto di un accordo”. E aggiunge
1. “le parti sono capaci di giustizia nel senso che possono essere rassicurate dal fatto che ciò che hanno intrapreso non è vano”
= la visibilità della realizzazione della giustizia aiuta la motivazione morale e quindi la stabilità
2. “la questione dell’onere dell’impegno diventa particolarmente pressante […] Quando accettiamo un accordo […] dobbiamo essere in grado di rispettarlo anche di fronte alle più gravi difficoltà. In caso contrario, non avremmo agito in buona fede. Le parti devono perciò valutare con attenzione se saranno in grado di mantenere fede ai propri impegni in ogni circostanza.”

Qui secondo me il punto di Rawls è il seguente. Supponiamo per assurdo che le parti scelgano di realizzare nella società un’idea di giustizia che può essere realizzata soltanto come morale esoterica, ossia il contenuto della morale ufficiale nasconde il vero scopo per cui tale morale è stata adottata. Un bel giorno, un membro della setta dei custodi della vera morale impazzisce e spiffera a tutti il vero scopo della morale ufficiale. Una volta venuti a conoscenza di tale contenuto (ad esempio, la massimizzazione dell’utilità nell’universo) i cittadini smettono di obbedire alla morale ufficiale. La morale ufficiale entra in crisi e in un baleno ci si ritrova alla guerra di tutti contro tutti. In tale condizione gli esseri umani sono poco motivate a comportarsi secondo i dettami della morale (segue da 1).
Quando Rawls afferma “le parti devono perciò valutare con attenzione se saranno in grado di mantenere fede ai propri impegni in ogni circostanza”, forse ha in mente una possibilità di questo tipo.
Quindi il motivo per cui Rawls adotta il vincolo di pubblicità avrebbe a che fare, in fin dei conti, con una premessa morale del tipo “i patti vanno rispettati”, e, strumentalmente, con la stabilità. Riassumendo:
1) la concezione della giustizia di TJ è alla base contrattualista: i principi di giustizia esprimono il contenuto di un patto
2) i patti vanno rispettati (premessa morale)
3) prima di fare un patto, è morale assicurarsi di essere capaci di rispettarlo sempre e comunque (da 2)
4) vedere altri che si comportano giustamente aumenta la motivazione ad agire giustamente (premessa indipendente, psicologia morale empirica)
5) è più probabile che un codice morale venga rispettato quando lo si considera giusto e ben fondato, e quando tutti intorno a sé sembrano fare uno sforzo per rispettarlo (da 4)
6)la stabilità delle istituzioni progettate sulla base di un principio non pubblico non è basata sul riconoscimento di una concezione della giustizia da tutti condivisa, ma su qualche artificio sociale basato su una morale segreta

7) è difficile mantenere i segreti (premessa empirica sulla natura umana)
8 ) la stabilità delle istituzioni progettate sulla base di un principio di giustizia non-pubblico è fondata su presupposti incerti (da 7)
9)  progettare le istituzioni sulla base di un principio di giustizia non-pubblico equivale a stringere un patto senza la sicurezza di poterlo mantenere (da 8 )
10) è immorale progettare le istituzioni sulla base di un principio di giustizia non-pubblico (da 3 e 9 )

Quindi, riassumendo, la pubblicità dei principi di giustizia ha valore in quanto a parità di altri fattori da luogo a istituzioni più stabili, e istituzioni stabili hanno valore, in un’ottica contrattualistica, in quanto forniscono migliori garanzie che l’accordo sociale verrà rispettato.

Williams su Rawls e il “sistema pubblico di Regole”

In Una Teoria della Giustizia, Rawls fa riferimento a tale questione quando spiega l’idea che la struttura di base sia l’oggetto [subject] dei principi primi di giustizia. Rawls scrive che la struttura di base della società è un “sistema pubblico di regole”, nel quale, “chi fa parte di un’istituzione sa ciò che tali regole richiedono a lui e agli altri. Egli sa anche che gli altri sanno  ciò e che essi sanno che lui sa, e via dicendo” (Rawls TJ 2nd ed it. 71; Rawls 2nd ed eng 48). Rawls è consapevole che non è ragionevole pretendere che tale condizione sia sempre soddisfattta dalle istituzioni sociali ma allo stesso tempo ritiene che nello scegliere principi di giustizia occorre assumere che tale condizione sia soddisfatta.

Nonostante quello che afferma Williams (Williams 1998, 233), il punto della questione nel passaggio citato è che se una concezione della giustizia non può funzionare nel caso ideale in cui vi è conoscenza comune del loro contenuto e del fatto che siano seguite, essa non deve essere considerata una concezione valida, non che le regole devono essere tali che sia possibile che vi sia conoscenza comune di esse. A questo punto può risultare difficile spiegare il collegamento tra tali considerazioni e la tesi secondo cui l’oggetto della giustizia sia la struttura di base. Per spiegare tale collegamento, bisogna fare appello a una interpretazione più articolata del ruolo del passaggio in questione. Una possibilità è la seguente:

1. Le regole non sono regole giuste, se non hanno conseguenze accettabili quando vi è conoscenza comune delll’obbedienza (o mancata obbedienza) ad esse (vincolo di pubblicità)

2. Nello scegliere principi di giustizia, dobbiamo supporre che l’obbedienza alle regole sia di conoscenza comune (da 1)

3. Nello scegliere principi di giustizia, dobbiamo immaginare che esse si applichino a un contesto nel quale la conoscenza comune dell’obbedienza alle regole è possibile (da 2)

4. Nello scegliere principi di giustizia, dobbiamo immaginarli applicati a un modello tale per cui sia possibile fare predizioni ragionevolmente condivisibili sulle conseguenze della conoscenza comune dell’obbedienza generale a tali principi (da 1 e 3)

La conclusione raggiunta da tale argomento è assai più debole di quella di Williams. Williams sostiene che per Rawls i princii devono essere tali che sia possibile avere conoscenza comune della obbedienza ad essi. Invece l’argomento Rawlsiano implica solo che, nel valutare i principi, essi vengano immaginati applicati a un contesto tale per cui sia possibile predire (con un grado ragionevole di probabilità, necessario ai fini di un accordo)  le conseguenze della conoscenza comune della obbedienza ad esse. Questo contesto è la struttura di base della società, la quale include soltanto fatti per le quali non è difficile immaginare che essi siano oggetto di conoscenza comune.

A difesa del dualismo giustificativo

Come spiego in questo post, ritengo che sia possibile interpretare il passaggio nel quale Rawls introduce l’idea di reciprocità come interpretazione del principio di differenza( §17 TJ) in due modi diversi, a seconda che si pensi che tale idea debba essere bilanciata con l’idea di rimozione dei fattori moralmente arbitrari (a cui Rawls fa appello, apparentemente, quando giustifica il superamento delle concezioni della giustizia dell’Eguaglianza Liberale e del Sistema della Libertà Naturale), oppure che l’idea di reciprocità soppianti quella di non-arbitrarietà interamente.

Come qualcuno avrà notato leggendo questo post, propendo per l’interpretazione monista. Ma questo non vuol dire che l’interpretazione dualista non sia difendibile (essa è attribuibile, tra l’altro, a filosofi competenti come B. Barry).  In questo post, cercherò di fornire quelle che secondo me sono le ragioni intuitive più plausibili per l’interpretazione dualista.

L’idea secondo cui due aspetti assai diversi degli schemi di cooperazione rispondano a principi morali diversi è intuitivamente attraente. Infatti non solo le opportunità e gli esiti(di ricchezza, reddito e potere) rappresentano beni di tipo assai diverso, ma corrispondo anche a fasi diverse del processo sociale che determina il modo in cui i beni vengono distribuiti.

Pensiamo a come un cittadino arriva a ottenere la quota distributiva di reddito, ricchezza, e autorità, che gli compete (cioè la quantità totale di tutto il reddito, la ricchezza e l’autorità di cui gode nel corso della sua vita). Un cittadino nasce e già in virtù delle sue corredo genetico gode di opportunità già in qualche misura diverse da quelle degli altri; è accudito e cresciuto da individui adulti (tipicamente i suoi genitori e la parentela stretta), che in virtù del loro carattere e della loro cultura iniziano a dare forma a tali potenzialità inespresse. Queste potenzialità si sviluppano ulteriormente in virtù di condizioni che tendono a essere diverse a seconda delle condizioni sociali di nascita: il tempo a disposizione dei suoi genitori (che dipende dal loro inquadramento lavorativo), il tipo di quartiere in cui abita, il tipo di scuola che frequenta. Nei primi stadi dello sviluppo risulta assai difficile introdurre una distinzione tra ciò che l’individuo è e le sue scelte, tra ciò che egli ottiene e ciò che egli ha l’opportunità di ottenere. Gradualmente, tuttavia, si inizia a intravedere un individuo dotato di volontà e preferenze autonome, che compie scelte consapevoli (e non) su uno sfondo di opportunità date, derivanti da una molteplicità di fattori. A partire da un certo punto nello sviluppo della personalità, ha senso parlare di un individuo che autonomamente coglie alcune opportunità ma non altre e in alcuni casi può essere ritenuto responsabile di ciò. Ciascun individuo dunque ottiene una posizione sociale in virtù del modo in cui sfrutta le opportunità che gli si offrono (che a loro volta, come abbiamo visto, dipendono da un numero disparato di fattori economici, sociali e naturali). Data l’importanza del reddito da lavoro per la maggior parte dei cittadini in economie come le nostre, la competizione per le posizioni sociali  può essere pensata quindi come uno dei processi che detemina la distribuzione dei beni primari (in particolare reddito e prerogative di autorità), distinto da e forse più importante degli altri.

Persino in una economia nazionale chiusa, la competizione per le posizioni sociali non esaurisce l’ambito delle interazioni economiche che contribuiscono a determinare il tenore di vita dei cittadini e la traiettoria di sviluppo di una società. Infatti ciascun individuo è libero di utilizzare le risorse a sua disposizione (in virtù del lavoro caratterizzante la propria posizione sociale) a fini diversi; in particolare egli non si limiterà al consumo, ma investirà parte delle risorse a propria distribuzione ai fini di accrescere tali risorse ulteriormente. L’utilizzo delle risorse ai fini del consumo e del risparmio (a cui corrisponde l’investimento) determina un’ulteriore redistribuzione dei beni: beni che dagli stipendi individuali transitano verso beni, servizi e opportunità d’investimento contribuendo in misura diversa al successo di industrie diverse .

Possiamo dunque distinguere due processi diversi che contribuiscono a fissare complessivamente le quote distributive individuali: la competizione per le posizioni sociali (e per le risorse che ne derivano) e lo scambio di tali risorse. Nel caso della competizione per le posizioni sociali, la distinzione tra opportunità e esiti permette di concepire l’accesso ai beni scarsi come se fosse una competizione atletica. Le opportunità di un individuo equivalgono alle posizioni di partenza in una gara. Una volta stabilite posizioni di partenza eguali, cioè eguali opportunità, la posizione che ciascun concorrente raggiunge dipende più o meno da come lui e gli altri individui decidono di utilizzare tali opportunità. Nel caso della competizione, possiamo desiderare (dal punto di vista morale) che i posti di partenza siano eguali per tutti: cioè non vogliamo che fattori arbitrari (una buca nel terreno, scarpe da corsa migliori, un malore imprevedibile) influenzino il risultato della gara. Alla fine della gara, gli individui ricevono il premio, ossia prendono possesso della di una certa quantità di risorse (che supponiamo giusta, in quanto derivante da una competizione equa). A partire da questo punto, entriamo nell’ambito dello scambio. Dal punto di vista morale, potremmo desiderare che gli individui possano disporre al meglio dei beni che fanno parte della loro quota distributiva, conferendo loro la possibilità di donarli o scambiarli in modi vantaggiosi per tutte le parti considerate, almeno se così facendo non compromettono il regolare svolgimento delle altre competizioni in corso.

La distinzione tra competizione e scambio permette di dare un senso un po’ più coerente al dualismo giustificativo.  Secondo tale idea, abbiamo a che fare con contesti morali diversi differenti, a cui rispondiamo invocando principi diversi. Quando pretendiamo che le posizioni di partenza sono autenticamente eguali, la quota di risorse ottenute è giusta, facciamo appello alla concezione di non arbitrarietà. Quando invece consideriamo gli scambi delle risorse così ottenute ci sembra ragionevole rifarci a un vincolo morale diverso, quello di reciprocità.

L’idea alla base del dualismo giustificativo, così formulata, è che, almeno nella misura in cui è possibile distinguere e isolare i due processi distinti che determinano le quote distributive complessive (competizione e scambio), ha senso avvalerci di principi morali distinti per regolare le istituzioni che influenzano il funzionamento di tali processi. In pratica la diversità dei principi morali rifletterebbe la diversità (moralmente rilevanti) dei contesti a cui si applicano. Nel primo caso, quello dell’accesso alle posizioni sociali, abbiamo a che fare con un tipico contesto competitivo a somma zero, dove cioè la vittoria di uno implica la sconfitta di un altro. Come in una gara non è possibile per più di un individuo classificarsi primo, secondo, e così via, almeno nel breve e medio periodo l’organizzazione socio-economica della società, in particolare in riferimento alle prerogative dell’autorità, può essere considerata come dotata di un numero fisso di posizioni per cui gli individui competono.[1] Quindi la concezione morale appropriata è quella di una gara equa, nella quale tutti i concorrenti partono da posizioni di partenza quanto più possibile eguali.

Quando abbiamo a che fare con lo scambio, tipicamente, l’esito del processo è un vantaggio per entrambe le parti interessate. Non abbiamo più a che fare con un gioco a somma zero, ma con un contesto nel quale è possibile che, ottenendo io di più di te, anche tu ottieni di più di quanto avresti ottenuto altrimenti. Questo intuitivamente giustifica  che i principi morali che regolano lo scambio dovrebbero essere diversi da quelli che regolano la competizione per le posizioni sociali, facendo appello non tanto all’idea di rimozione dei fattori moralmente arbitrari, ma a quella di reciprocità tra eguali.


[1] Sebbene la struttura sociale – cioè il numero e la varietà delle posizioni sociali che una società contiene – possa essere modificabile nel lungo periodo, tale struttura dipende in gran parte da fattori come il grado di sviluppo socio-economico-culturale (ad esempio le differenze tra un’economia agricolo-pastorale, un’economia industriale o una centrata sui servizi). Nella misura in cui la struttura socio-economica della società dipende non solo dalla distribuzione di reddito, autorità, opportunità e libertà civili, ma anche dalle conoscenze scientifiche, dalla cultura umanistica e dalle conoscenze organizzativo-gestionali di una società, essa dipende da fattori esogeni dal punto di vista della giustizia come equità, cioè fattori a cui i principi di giustizia non si applichino, sebbene i primi determinino il modo di applicazione dei secondi.

Rawls, luck egalitarian?

L’ostacolo più grande che bisogna superare per mostrare che Rawls non fa ricorso alla principio di giustizia luck-egalitarian è spiegare il ruolo delle considerazioni Rawlsiane sull’arbitrarietà dei talenti naturali.

Quello che battezzo “principio di giustizia luck egalitarian” afferma che se una diseguaglianza è dovuta a fattori moralmente arbitrari, allora è (almeno ceteribus paribus) ingiusta.

Chi legge Rawls come un luck-egalitarian ritiene che Rawls insista sul punto che le diseguaglianze dovute a talenti naturali di nascita sono moralmente arbitrarie perché egli intende argomentare che sia giusto eliminarle (almeno ceteribus paribus).

Ovviamente nel fare ricorso a tale argomento, Rawls deve fare appello a una premessa normativa, facilmente identificata con la premessa secondo cui se una diseguaglianza deriva da fattori moralmente arbitrari allora è ingiusta, e come tale (almeno a parità di condizioni) dovrebbe essere eliminata.

Chi non accetta tale premessa deve spiegare perché Rawls parla dell’arbitrarietà morale dei talenti. Questo implica fornire una spiegazione coerente del principio normativo che collega fattori moralmente arbitrari e giustizia, e del ruolo che svolge nell’argomento a favore dell’Eguaglianza Democratica.

La mia interpretazione è la seguente:

Nell’argomento del paragrafo §12 di Una Teoria della Giustizia, a Rawls interessa mostrare solo  che  le diseguaglianze sociali che derivano dalle differenze naturali tra gli uomini non sono giustificate in virtù del tipo di fattori da cui derivano.

L’argomento in cui tali considerazioni svolgono un ruolo parte da una premessa che non è vitale per Rawls, ma che lo è per i potenziali oppositori dell’Eguaglianza Democratica, ad esempio coloro per i quali l’Eguaglianza Liberale rappresenta una concezione adeguata della giustizia.

Si tratta della premessa secondo cui se una diseguaglianza non è dovuta a fattori moralmente arbitrari, cioè se essa è meritata, essa non può essere considerata ingiusta. Tale premessa è comunemente ritenuta intuitivamente plausible. Assumiamo a scopo di argomento che chi più si sfoza di ottenere qualcosa, a parità di altre condizioni, merita di più di ottenerla. Come potremo concere, allora, che le diseguaglianze che derivano esclusivamente da differenze di sforzo siano ingiuste?

Nel passaggio da tale premessa a tale conclusione, facciamo implicitamente appello al principio generale in base a cui le diseguaglianze sono meritate, quindi non derivano da fattori  moramente arbitrari, esse non possono essere considerate ingiuste. Questa è l’unica premessa che riguarda l’arbitrarietà morale a cui Rawls fa riferimento, quando si occupa del problema dell’arbitrarietà morale delle abilità e dei talenti.

Si tratta di una premessa diversa, e assai più debole, di quella secondo cui se una diseguaglianza non è dovuta a fattori di merito (cioè se essa è dovuta a fattori moramente arbitrari) allora essa è ingiusta.

Le due premesse sono diverse in quanto in una è l’arbitrarietà morale è una condizione necessaria, e nell’altra è una condizione sufficiente della giustizia.

Condizione sufficiente:

se D è una diseguaglianza dovuta a fattori moralmente arbitrari (ovvero, se X è immeritata) allora D è ingiusta

Condizione necessaria:

se D è ingiusta, allora D è dovuta a fattori moralmente arbitrari (ovvero, X è immeritata)

La condizione necessaria serve come premessa a coloro che sostengono che le differenze dovute ai talenti naturali sono giuste. Infatti essi argomentano così:

Se D è ingiusta, allora D è dovuta a fattori moralmente arbitrari

Ma D non è dovuta a fattori moralmente arbitrari (ovvero D è meritata)

Quindi D non può essere ingiusta

Essi ritengono che le differenze tra talenti naturali siano meritate (cioè non siano moralmente arbitrarie), e quindi le diseguaglianze che dipendono esclusivamente da tali differenze non possono essere ingiuste. Quindi difendono l’Eguaglianza Liberale, nella quale le differenze di opportunità riflettono le differenze di talento e le deviazioni dagli esiti distributivi di tale schema di opportunità vengono considerate ingiuste a meno che non siano pareto efficienti.

Rawls concede la premessa del loro argomento che concerne il rapporto tra arbitrarietà morale e giustizia, perché ritiene di poter mostrare facilmente che nessuno merita un talento di nascita diverso da quello degli altri.

Una condizione necessaria non è una condizione sufficiente. La condizione necessaria  non esclude che le diseguaglianze che derivano da fattori moralmente arbitrari, cioè che sono immeritate, possano essere giuste (ad esempio possono essere giuste quando derivano da uno schema che esprime una concezione appropriata della reciprocità). Quindi Rawls non è luck-egalitarian, manco di striscio.

Google translation of the previous post

This is the google translation of my previous post. (In brackets, required corrections)

” Starts google translation

What is wrong in this topic [argument]?
March 18, 2010 · Leave a Comment

Preconditions

[a] to E ‘right to reduce the inequalities caused by morally arbitrary factors (non-arbitrariness)

b if inequality is permitted by a principle that expresses an adequate conception of reciprocity, then it is just (reciprocity weak).

c. The difference principle expresses a proper conception of reciprocity (at least when applied to income inequality, wealth and authority consistent fair equality of opportunity).

Premise (c) is the position you on the difference principle Rawls (A Theory of Justice, 2nd ed. P. 88, trans.. P. 112).

The argument is as follows:

Topic:

1. Inequalities in income, wealth and authority among families of the generation 1 compatible with fair equality of opportunity and the principle of difference (D1) are just (to BEC) [from (b) and (c)]
2. Since D1 inequalities are just (1), they are not arbitrary from the moral point of view
3. D1 inequalities between families of the generation 1 correspond to different social circumstances of origin of the children of the generation 1 (which we call Generation 2)
4. Inequalities of opportunity (D2) between the individuals of generation 2, due to different social circumstances of origin do not result from arbitrary inequalities in terms of morality (from 2 and 3)
5. It’s not fair to remove the inequality (D2) as due to morally arbitrary factors (from ae 4 [from a and 4])
6. Fair equality of inequality of opportunity should be excluded due to different social circumstances of origin [Fair  equality of opportunity excludes inequalities due to different social circumstances of origin]
7. The role of fair equality of opportunity, from the standpoint of justice, can not be to reduce inequalities unjust as it is morally arbitrary (from 5 and 6) [Almost correct, but still understandable?]

But then, what is the purpose of fair equality of opportunity? (Note that this issue creates problems dualistic interpretation of justice as fairness.)

I found that the argument is invalid (even though I disagree with the conclusion for different reasons). Do you agree? If so, do you where is the error?

END of translation”

The translation quality (nOt the argument) is IMPRESSIVE, isn’t it?

dov’è l’errore in questo argomento?

Premesse

a E’ giusto ridurre le diseguaglianze dovute a fattori moralmente arbitrari (non-arbitrarietà)

b se una diseguaglianza è permessa da un principio che esprime una concezione adeguata della reciprocità, allora è giusta (reciprocità debole).

c. Il  principio di differenza esprime una concezione appropriata della reciprocità (almeno quando si applica a diseguaglianze di reddito, ricchezza e autorità compatibili l’equa eguaglianza di opportunità).

La premessa (c) è la posizione si Rawls sul principio di differenza (A Theory of Justice, 2nd ed. p. 88, trad. it. p. 112).

L’argomento è il seguente:

Argomento:

  1. Le diseguaglianze di reddito, ricchezza e autorità tra famiglie della generazione 1 compatibili con l’equa eguaglianza di opportunità e il principio di differenza (D1) sono giuste (da b e c)
  2. Poiché le diseguaglianze D1 sono giuste (da 1), esse non sono arbitrarie dal punto di vista morale
  3. Le diseguaglianze D1 tra le famiglie della generazione 1 corrispondono alle diverse circostanze sociali d’origine dei figli della generazione 1 (che chiameremo generazione 2)
  4. Le diseguaglianze di opportunità (D2) tra gli individui della generazione 2, dovute alle diverse circostanze sociali d’origine, non derivano da diseguaglianze arbitrarie dal punto di vista morale (da 2 e 3)
  5. Non è giusto rimuovere le diseguaglianze (D2) in quanto dovute a fattori moralmente arbitrari (da a e 4)
  6. L’Equa Eguaglianza di Opportunità esclude diseguaglianze di opportunità dovute alle diverse circostanze sociali d’origine
  7. La funzione dell’Equa Eguaglianza di Opportunità, dal punto di vista della giustizia, non può essere quella di ridurre diseguaglianze ingiuste in quanto moralmente arbitrarie (da 5 e 6)

Ma allora, qual’è lo scopo dell’Equa Eguaglianza di Opportunità? (Si noti che questo argomento crea problema all’interpretazione dualista della giustizia come equità.)

Secondo me l’argomento non è valido (anche se sono d’accordo con la conclusione, per ragioni diverse). Siete d’accordo? Se si, secondo voi dove sta l’errore?

Monismo e pluralismo giustificativo

Una versione un po’ più precisa del post precedente:
E’ possibile fornire due interpretazioni assai diverse del “significato” della concezione dell’ “Eguaglianza Democratica”, a seconda di come si interpreta il suo rapporto con le considerazioni sull’arbitrarietà morale di alcune diseguaglianze, da un lato e l’idea di reciprocità, dall’altro.
Dualismo Giustificativo

Secondo la prima interpretazione, che chiameremo “dualismo giustificativo”, il secondo principio di giustizia si giustifica come “sintesi” o “compromesso” tra due aspirazioni:

  1. le diseguaglianze dovute a fattori moralmente arbitrari dovrebbero essere eliminate, o compensate (principio di riparazione, o non-arbitrarietà)
  2. le diseguaglianze vantaggiose per tutti dovrebbero essere permesse (reciprocità)

Il secondo principio di giustizia, secondo tale interpretazione, deriva dalla necessità di trovare una sintesi tra le esigenze del principio di riparazione e quelle della reciprocità. Non dovrebbe sorprendere che nessuna delle due aspirazioni (come vedremo) viene realizzata del tutto: ciò è funzionale alla realizzazione di un compromesso ragionevole con l’altro aspetto.

Monismo Giustificativo

Secondo la seconda interpretazione, che chiameremo “monismo giustificativo”, il ruolo delle considerazioni sull’arbitrarietà morale sarebbe solo quello di “preparare la scena” per l’interpretazione del secondo principio come Eguaglianza Democratica, la quale esprimerebbe unicamente una nozione appropriata di reciprocità. (In altri termini, il ruolo di tali considerazioni è solo quello di mostrare che c’è bisogno di una giustificazione per le diseguaglianze sociali, anche quelle che derivano più o meno direttamente dalle differenze naturali tra gli uomini, come spiego qui). Secondo il monismo, inoltre, il fatto che le istituzioni compatibili con il secondo principio di giustizia non producano notevoli diseguaglianze  influenzate da fattori moralmente arbitrari è un effetto collaterale, non uno degli scopi perseguiti da tali istituzioni (anche se tale fatto è significativo dal punto di vista dell’equilibrio riflessivo allargato).

Quale concezione vi sembra più appropriata?

Due interpretazioni dell’eguaglianza democratica

A ben vedere, sono possibili due interpretazioni alternative delle ragioni alla base dell’interpretazione del secondo principio come eguaglianza democratica. Secondo la prima interpretazione, alla base del secondo principio di giustizia vi sarebbero due concezioni fondamentalmente diverse di ciò che rende le diseguaglianze giustificate:
1. la non dipendenza da fattori moralmente arbitrari
2. la reciprocità, cioè il vantaggio per entrambe le parti interessate alla spartizione del prodotto comune, rispetto a una posizione iniziale di eguaglianza.
Secondo la seconda interpretazione, l’unico principio che giustifica è quello della reciprocità. In base a tale interpretazione la riduzione del peso dei fattori moralmente arbitrari (sebbene auspicabile dal punto di vista del principio di riparazione) non sarebbe altro che un effetto collaterale di strutture sociali che sono tenute a soddisfare vincoli morali di tipo essenzialmente diverso.
E voi, per quale interpretazione propendete?

Cohen: Rescuing justice from the facts

Alcuni pensano che lo scopo raggiunto da Cohen in “rescuing justice from the facts” sia negare che:

T. i principi primi della giustizia dipendono da fatti sulla condizione umana

Alcuni negano che Cohen raggiunga tale scopo, in quanto rifiutano gli argomenti che Cohen utilizza e le conclusioni da lui raggiunte. Altri accettano gli argomenti di Cohen e quindi ritengono che sia giusto rinunciare a T. Io, al contrario, ritengo che gli argomenti di Cohen siano validi, ma che non forniscano motivi sufficienti per negare la validità di T. Non è neppure chiaro che Cohen ritenga di avere mostrato la falsità di T. Infatti, se si legge attentamente il saggio di Cohen, in apertura egli afferma:

T1 “sound normative principles, as such (and, therefore, all of them), are (at least inter alia) grounded in the facts of human nature and of the human situation” (p.229).

Come dovrebbe essere evidente T1 è diversa da T e più forte di T, quindi la falsità di T1 non comporta la falsità di T (tornerò più avanti sull’argomento per coloro che ne dubitassero). In quello che segue, vorrei provare a sostenere una posizione logicamente possibile, che segue dall’accettare tutti gli argomenti di Cohen contro T1, senza rinunciare a T, ovvero alla tesi che i principi primi della giustizia dipendono da fatti sulla condizione umana. Se questo è vero, forse la tesi che Cohen afferma di avere rifiutato non è una tesi a cui i Rawlsiani (leggi: costruttivisti politici) non possano rinunciare.

L’argomento di Cohen si basa su tre premesse:

1. whenever a fact F confers support on a principle P, there is an explanation why F supports P, an explanation of HOw, that is, F represents a reason to endorse P

2. the explanation whose existence is affirmed by (1) invokes or implies a more ultimate principle, commitment to which would survive denial of F, a more ultimate principle that explains why F supports P, in the fashion illustrated above

3. the process of interrogation (of why F supports P, etc.) comes to an end

La conclusione è:

every fact-sensitive principle reflects a fact-insensitive principle (and this is true of the structure of the principled beliefs of a given person, or within the structure of the objective truth about principles, if there is an objective truth about principles)

L’argomento può essere riassunto lasciando da parte alcuni dettagli in due passaggi:

a) per ogni principio P1 la cui validità dipende anche da un fatto F1 (fact-sensitive principle), vi è un principio (o un insieme di principi), P2,…Pn, la cui validità non dipende da F1, che insieme a F1 rende valido P1

b) in virtù di (a), dobbiamo postulare che alla base dei principi che ciascuno di noi accetta (o che sono oggettivamente veri) vi è un principio (o un insieme di principi) la cui validità non dipende dai fatti.

Questo argomento permette a Cohen di rifiutare la seguente tesi T1,raggiungendo l’obiettivo prefissato all’inzio del suo saggio:

T1 “sound normative principles, as such (and, therefore, all of them), are (at least inter alia) grounded in the facts of human nature and of the human situation” (p.229).

La mia posizione è che anche se l’argomento che porta a rifiutare T1 è valido, non è scontato che T1 porti a T. Come mostrerò

1). T è più debole di T1 (ovvero, T non implica T1, ovvero, il rifiuto di T1 non implica il rifiuto di T).

Se questo è vero, è lecito chiedersi:

2) A prescindere da (2), è coerente e sensato affermare T negando T1?

3) Rawls e i suoi seguaci affermano esplicitamente T1 o T ? E se anche affermassero T1, potrebbero arroccarsi su T senza stravolgere il senso della loro posizione?

Riguardo a (1), sembra evidente che (da un punto di vista strettamente logico) T non implichi T1. Infatti T non afferma che tutti i “sound normative principles” siano basati su fatti sulla condizione umana, ma solo che i principi ultimi della giustizia lo siano.

Riguardo a (2), occorre spiegare perché avrebbe senso difendere T anche abbandonando T1. O in altre parole: perché insistere a chiamare i “principi primi di giustizia” i principi più fondamentali tra i principi che dipendono dai fatti sulla condizione umana, se allo stesso tempo ammette che la validità di tali principi dipende da quella di principi che non dipendono da tali fatti?

In tale concezione, anche se la scala delle giustificazioni dei principi di giustizia si estende più in alto oltre i principi sensibili ai fatti sulla condizione umana, la qualifica di “principi di giustizia” non si estende lungo tutta la scala fino ai principi più fondamentali. Sebbene la validità normativa dei principi primi di giustizia dipenda da quella di altri principi fact-insensitive, ai fini della giustizia i principi primi sono quelli fact-sensitive più generali. Anche se i principi primi di giustizia derivano la loro validità da altri principi, non derivano la loro validità da altri principi di giustizia.

In generale, l’idea è quella di negare che se B è un principio del tipo T1, e A è necessario per spiegare la validità di B, B sia anch’esso necessariamente un principio del tipo T1. Questa idea potrebbe sembrare incoerente. Per mostrare che così non è, farò appello ad alcune analogie.

Per una analogia approssimativa che non ha niente a che fare con l’etica, si supponga che X Y Z siano le leggi fondamentali dell’aritmetica. Qualcuno potrebbe sostenere che la validità di tali principi deriva dalla validità delle leggi fondamentali X1, Y1, e Z1 della teoria degli insiemi. Ma questo non fa di X1 Y1 e Z1 i principi primi dell’aritmetica.

Per un’analogia con un altro ramo dell’etica, qualcuno potrebbe sostenere una posizione compatibile con i quattro assunti seguenti:

1.  X Y e Z sono principi primi della bioetica

2. la giustificazione di X Y e Z deriva dal principio di massimizzazione dell’utilità U

3. Il principio U rappresenta una verità morale universale

e tuttavia

4. U non è il principio primo della bioetica

Come può essere giustificata una concezione del genere? Supponiamo che l’oggetto (subject-matter) della bioetica sia quello delle scelte relative all’utilizzo delle tecnologie biomediche. Assumiamo inoltre che X Y Z utilizzino concetti meno astratti di “massimizzare l’utilità”, più legati a tali pratiche (essi includono, es. principi che si applicano alla termine della vita, alla volontà degli individui, etc). Ciò che ci porta ad affermare che X Y Z siano principi primi della bioetica é che a) non vi siano doveri morali legati a tale contesto la cui giustificazione derivi da principi diversi da X Y Z; b) X Y Z sono formulati in un modo abbastanza concreto da far si che l’applicazione dei principi ai problemi morali dell’ambito su cui vertono non sia più controversa della giustificazione dei principi stessi. Ciò che invece ci porta ad affermare che U non sia il principio primo della bioetica è una serie di considerazioni:

1)U si applica in modo altrettanto preciso (o generico) a qualsiasi pratica dell’agire umano (o divino);

2) convincere qualcuno che accetta U che una determinata scelta è dettata da U è altrettanto arduo che convincere qualcuno della validità di U;

3) in virtù di (2) alcuni accettano X Y Z (nell’ambito della bioetica) ma dubitano che questi seguano da U

4) alcuni accettano X Y Z ,ma rifiutano U per ragioni indipendenti dall’ambito bioetico;

5) alcuni accettano X Y Z, ma ritengono che X Y Z possano essere derivati da principi generali diversi da U;

6) alcune accettano X Y Z, ma non hanno principi morali più generali in cui credono altrettanto fermamente

Alla luce di questi fatti, risulta ragionevole considerare X Y Z, non U, alla stregua di principi primi ai fini della bioetica. Questo punto potrebbe trovare d’accordo anche colui che non ha dubbi sul fatto che i principi X Y Z derivino la propria validità normativa da U, ma che dubiti che sia facile e produttivo mostrarlo a chi non ne è convinto.

Il parallelo con la giustizia dovrebbe essere facilmente comprensibile. I principi fact-indipendent di cui parla Cohen sono o principi molto astratti come “a ciascuno il suo”, “trattare gli eguali da eguali” oppure riformulazioni condizionali di un principio fact-independent. Nel caso condizionale i principi fact-indipendent non aggiungono informazione a quelli fact-dependent e quindi non hanno alcun valore “for self-clarification and for the clarification of what is at stake in the controversy” (p. 269).  Invece principi astratti del secondo tipo hanno lo stesso difetto di U e quindi si applicano ragioni simili a  (1), (2), (3), (4), (5) e (6) nell’esempio sopra considerato.

Passiamo ora a (3) ovvero se Rawls e i suoi seguaci affermino P o P1 o se siano tenuti ad affermare l’uno o l’altro. Quanto alla prima questione, l’evidenza portata da Cohen è una citazione da  Rawls: “conceptions of justice must be justified by the conditions of our life as we know it or not at all”: non prova che Rawls ritenga che tutti i principi morali (incluso quelli non di giustizia) debbano essere giustificati alla luce della condizione umana. Che spazio c’è in Rawls per il riconoscimento di principi fact-independent alla base dei principi di giustizia? Letteralmente pochi. Tuttavia Rawls ritiene che la procedura di costruzione da cui si deducono i due principi (la posizione originaria) si basi su dei presupposti morali, ovvero l’idea di cittadini liberi ed eguali: tali presupposti non dipendono in alcun modo da fatti sulla condizione umana come le circostanze di giustizia. Il riconoscimento di tali presupposti potrebbe essere interpretato alla stregua del riconoscimento di un principio morale (non di giustizia) relativamente fact-indipendent: ad esempio il principio “coloro che hanno le caratteristiche rilevanti dovrebbero essere trattati da liberi ed eguali”. Forse non si snatura troppo la teoria di Rawls ammettendo che la validità dei principi primi di giustizia (nel senso di Rawls) dipende dalla validità di principi morali relativamente fact-insensitive. Rawls può comunque sostenere che i due principi di giustizia costruiti attraverso la procedura della posizione originaria sono principi primi ai fini del patto sociale: ovvero i cittadini dovrebbero attenersi a tali principi (non a principi più astratti e generali) quando giudicano nell’ambito pubblico le proprie istituzioni sociali fondamentali.

Fair Equality of Opportunity and self-realization

In A Theory of Justice, John Rawls writes that:

‘[I]f some places were not open on a basis fair to all, those kept out would be right in feeling unjustly treated even though they benefited from the greater efforts of those who were allowed to hold them. They would be justified in their complaint not only because they were excluded from certain external rewards of office but because they were debarred from experiencing the realization of self which comes from a skillful and devoted exercise of social duties. They would be deprived of one of the main forms of human good.’ (TJ, 73 (emphasis added))

This claim appears to be the main justification of a principle Rawls called “Fair Equality of Opportunity” (from now on, FEO)  that forms part of the “democratic equality” interpretation of the second principle of justice. Rawls thinks that this principle has a higher priority than the difference principle (DP) that deals with economic inequality and is satisfied only when the least well off individual gets the highest amounts of good as compared to what he or she would get under any other viable institutional system. This means, basically, that if an economic system satisfies DP but not FEO than we should try to establish FEO even if by so doing we would reduce the amount of income and wealth that goes to the least economically well off members of society (to unskilled labour force). Self-realization must be a really important good indeed, if we are allowed to sacrifice the interests of the many economically disadvantaged members in order that a few of them (those with the best talents) have a reasonable opportunity to get to the positions of highest power and responsibility! What the priority of FEO basically means, in few word, is that  we should’t endorse a policy that would increase the wealth and income of the poorest among africanamerican if by so doing we significantly reduce the possibility for someone like Obama to become the President.

We shall therefore analyze the argument from self-realization in some detail. (Unfortunately the justification of FEO and of its relation to the DP is not at all clear and is subject to many intepretative disputes, as it was evident by listening to some talks at this conference). Here I shall argue that, under a somewhat plausible interpretation, the argument from self-realization fails its purpose.

I shall assume that the idea of the priority of self-realization rests on the following claims:
1) gains of self-realization should be weighed more strongly than gains in material goods like wealth,
2) gains of self-realization derive primarily from accessing those among existing social positions one feels more attracted to,
3) losses of self-realization follow from being unable to access those among existing social position one feels more attracted to;
4) the higher the share of existing social positions one is able to access, the higher a person’s chances of self-realization in that society (from 2 and 3).

The conjunction of (1) and (4) is understood as justifying the superiority of FEO with respect to a “natural aristocracy” where, despite higher abolute levels of wealth for those at the bottom, the children of those born at the bottom (or people subject to racist discrimination) have very little or no chances of accessing positions at the top.

If this is an unacceptable interpretation of the “priority of self-realization” idea, just ignore what I’m going to say next. If I am right, then please read the objection below.

My objection is that 1) 2) 3) and 4) are valid, they justify going beyond FEO+DP in the direction of “social equality”, namely in the direction of simple egalitarian society where DP has no or very little role to play. Consider the following example.

Call S1 a society which satisfies both FEO and DP, which is a complex post-industrial economy with income and wealth distributed more equally than in any society we know of. Now consider S2. You may imagine S2 as an economically more primitive society, e.g. an agricultural society with a lower degree of economic (functional) differentiation than advanced capitalistic society. I shall assume that S2 offers low-talent citizens higher “shares of opportunity”, than S1. What do I mean by that? Just imagine that S2 as simpler society, where social positions are more similar between each other than in S2, in terms of the prerogatives of power and responsibility attached to them and in terms of the qualifications required to access them. In this society, being born with relatively poorer natural talents does not close you off from as many possibility of career as in S1. So In S2 those of low talent and ability will have more “opportunity for opportunities” (access to a larger share of the normal opportunity range), than in S1. (S2 may be considered, if you want, a step ahead with respect to S1 with respect to A. Buchanan’s “morality of inclusion” idea)

If a person’s chances of self-realization are proportional to the share of normal opportunities open to him, the priority of self-realization leads us to prefer S2 over S1. The reasoning can be reiterated a couple of times until we get to a very functionally indifferentiated society with very little (too little!) room for the sort of incentive-generating inequalities that DP is supposed to justify. This clearly shows that the Democratic Equality interpretation of the second principle is incompatible with using the priority of self-realization as a justification of FEO.

(One way to reject my argument is to argue that self-realization does not depend only upon one’s share of the opportunity range, but also upon how vast an array of opportunities one can pick up from (which I accept), so that one reaches a point where any further sacrifice of functional differentiation would reduce a person’s chances of self-realization by reducing the variety of occupations within the normal range of opportunity in absolute terms, while increasing a person’s share of that range. I disagree because the existence of a higher variety of possible occupations to pick up from does not significantly contribute to the self-realization of the least talented individuals, who only have access to the least self-fulfilling ones)*.