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A difesa del dualismo giustificativo

Come spiego in questo post, ritengo che sia possibile interpretare il passaggio nel quale Rawls introduce l’idea di reciprocità come interpretazione del principio di differenza( §17 TJ) in due modi diversi, a seconda che si pensi che tale idea debba essere bilanciata con l’idea di rimozione dei fattori moralmente arbitrari (a cui Rawls fa appello, apparentemente, quando giustifica il superamento delle concezioni della giustizia dell’Eguaglianza Liberale e del Sistema della Libertà Naturale), oppure che l’idea di reciprocità soppianti quella di non-arbitrarietà interamente.

Come qualcuno avrà notato leggendo questo post, propendo per l’interpretazione monista. Ma questo non vuol dire che l’interpretazione dualista non sia difendibile (essa è attribuibile, tra l’altro, a filosofi competenti come B. Barry).  In questo post, cercherò di fornire quelle che secondo me sono le ragioni intuitive più plausibili per l’interpretazione dualista.

L’idea secondo cui due aspetti assai diversi degli schemi di cooperazione rispondano a principi morali diversi è intuitivamente attraente. Infatti non solo le opportunità e gli esiti(di ricchezza, reddito e potere) rappresentano beni di tipo assai diverso, ma corrispondo anche a fasi diverse del processo sociale che determina il modo in cui i beni vengono distribuiti.

Pensiamo a come un cittadino arriva a ottenere la quota distributiva di reddito, ricchezza, e autorità, che gli compete (cioè la quantità totale di tutto il reddito, la ricchezza e l’autorità di cui gode nel corso della sua vita). Un cittadino nasce e già in virtù delle sue corredo genetico gode di opportunità già in qualche misura diverse da quelle degli altri; è accudito e cresciuto da individui adulti (tipicamente i suoi genitori e la parentela stretta), che in virtù del loro carattere e della loro cultura iniziano a dare forma a tali potenzialità inespresse. Queste potenzialità si sviluppano ulteriormente in virtù di condizioni che tendono a essere diverse a seconda delle condizioni sociali di nascita: il tempo a disposizione dei suoi genitori (che dipende dal loro inquadramento lavorativo), il tipo di quartiere in cui abita, il tipo di scuola che frequenta. Nei primi stadi dello sviluppo risulta assai difficile introdurre una distinzione tra ciò che l’individuo è e le sue scelte, tra ciò che egli ottiene e ciò che egli ha l’opportunità di ottenere. Gradualmente, tuttavia, si inizia a intravedere un individuo dotato di volontà e preferenze autonome, che compie scelte consapevoli (e non) su uno sfondo di opportunità date, derivanti da una molteplicità di fattori. A partire da un certo punto nello sviluppo della personalità, ha senso parlare di un individuo che autonomamente coglie alcune opportunità ma non altre e in alcuni casi può essere ritenuto responsabile di ciò. Ciascun individuo dunque ottiene una posizione sociale in virtù del modo in cui sfrutta le opportunità che gli si offrono (che a loro volta, come abbiamo visto, dipendono da un numero disparato di fattori economici, sociali e naturali). Data l’importanza del reddito da lavoro per la maggior parte dei cittadini in economie come le nostre, la competizione per le posizioni sociali  può essere pensata quindi come uno dei processi che detemina la distribuzione dei beni primari (in particolare reddito e prerogative di autorità), distinto da e forse più importante degli altri.

Persino in una economia nazionale chiusa, la competizione per le posizioni sociali non esaurisce l’ambito delle interazioni economiche che contribuiscono a determinare il tenore di vita dei cittadini e la traiettoria di sviluppo di una società. Infatti ciascun individuo è libero di utilizzare le risorse a sua disposizione (in virtù del lavoro caratterizzante la propria posizione sociale) a fini diversi; in particolare egli non si limiterà al consumo, ma investirà parte delle risorse a propria distribuzione ai fini di accrescere tali risorse ulteriormente. L’utilizzo delle risorse ai fini del consumo e del risparmio (a cui corrisponde l’investimento) determina un’ulteriore redistribuzione dei beni: beni che dagli stipendi individuali transitano verso beni, servizi e opportunità d’investimento contribuendo in misura diversa al successo di industrie diverse .

Possiamo dunque distinguere due processi diversi che contribuiscono a fissare complessivamente le quote distributive individuali: la competizione per le posizioni sociali (e per le risorse che ne derivano) e lo scambio di tali risorse. Nel caso della competizione per le posizioni sociali, la distinzione tra opportunità e esiti permette di concepire l’accesso ai beni scarsi come se fosse una competizione atletica. Le opportunità di un individuo equivalgono alle posizioni di partenza in una gara. Una volta stabilite posizioni di partenza eguali, cioè eguali opportunità, la posizione che ciascun concorrente raggiunge dipende più o meno da come lui e gli altri individui decidono di utilizzare tali opportunità. Nel caso della competizione, possiamo desiderare (dal punto di vista morale) che i posti di partenza siano eguali per tutti: cioè non vogliamo che fattori arbitrari (una buca nel terreno, scarpe da corsa migliori, un malore imprevedibile) influenzino il risultato della gara. Alla fine della gara, gli individui ricevono il premio, ossia prendono possesso della di una certa quantità di risorse (che supponiamo giusta, in quanto derivante da una competizione equa). A partire da questo punto, entriamo nell’ambito dello scambio. Dal punto di vista morale, potremmo desiderare che gli individui possano disporre al meglio dei beni che fanno parte della loro quota distributiva, conferendo loro la possibilità di donarli o scambiarli in modi vantaggiosi per tutte le parti considerate, almeno se così facendo non compromettono il regolare svolgimento delle altre competizioni in corso.

La distinzione tra competizione e scambio permette di dare un senso un po’ più coerente al dualismo giustificativo.  Secondo tale idea, abbiamo a che fare con contesti morali diversi differenti, a cui rispondiamo invocando principi diversi. Quando pretendiamo che le posizioni di partenza sono autenticamente eguali, la quota di risorse ottenute è giusta, facciamo appello alla concezione di non arbitrarietà. Quando invece consideriamo gli scambi delle risorse così ottenute ci sembra ragionevole rifarci a un vincolo morale diverso, quello di reciprocità.

L’idea alla base del dualismo giustificativo, così formulata, è che, almeno nella misura in cui è possibile distinguere e isolare i due processi distinti che determinano le quote distributive complessive (competizione e scambio), ha senso avvalerci di principi morali distinti per regolare le istituzioni che influenzano il funzionamento di tali processi. In pratica la diversità dei principi morali rifletterebbe la diversità (moralmente rilevanti) dei contesti a cui si applicano. Nel primo caso, quello dell’accesso alle posizioni sociali, abbiamo a che fare con un tipico contesto competitivo a somma zero, dove cioè la vittoria di uno implica la sconfitta di un altro. Come in una gara non è possibile per più di un individuo classificarsi primo, secondo, e così via, almeno nel breve e medio periodo l’organizzazione socio-economica della società, in particolare in riferimento alle prerogative dell’autorità, può essere considerata come dotata di un numero fisso di posizioni per cui gli individui competono.[1] Quindi la concezione morale appropriata è quella di una gara equa, nella quale tutti i concorrenti partono da posizioni di partenza quanto più possibile eguali.

Quando abbiamo a che fare con lo scambio, tipicamente, l’esito del processo è un vantaggio per entrambe le parti interessate. Non abbiamo più a che fare con un gioco a somma zero, ma con un contesto nel quale è possibile che, ottenendo io di più di te, anche tu ottieni di più di quanto avresti ottenuto altrimenti. Questo intuitivamente giustifica  che i principi morali che regolano lo scambio dovrebbero essere diversi da quelli che regolano la competizione per le posizioni sociali, facendo appello non tanto all’idea di rimozione dei fattori moralmente arbitrari, ma a quella di reciprocità tra eguali.


[1] Sebbene la struttura sociale – cioè il numero e la varietà delle posizioni sociali che una società contiene – possa essere modificabile nel lungo periodo, tale struttura dipende in gran parte da fattori come il grado di sviluppo socio-economico-culturale (ad esempio le differenze tra un’economia agricolo-pastorale, un’economia industriale o una centrata sui servizi). Nella misura in cui la struttura socio-economica della società dipende non solo dalla distribuzione di reddito, autorità, opportunità e libertà civili, ma anche dalle conoscenze scientifiche, dalla cultura umanistica e dalle conoscenze organizzativo-gestionali di una società, essa dipende da fattori esogeni dal punto di vista della giustizia come equità, cioè fattori a cui i principi di giustizia non si applichino, sebbene i primi determinino il modo di applicazione dei secondi.

dov’è l’errore in questo argomento?

Premesse

a E’ giusto ridurre le diseguaglianze dovute a fattori moralmente arbitrari (non-arbitrarietà)

b se una diseguaglianza è permessa da un principio che esprime una concezione adeguata della reciprocità, allora è giusta (reciprocità debole).

c. Il  principio di differenza esprime una concezione appropriata della reciprocità (almeno quando si applica a diseguaglianze di reddito, ricchezza e autorità compatibili l’equa eguaglianza di opportunità).

La premessa (c) è la posizione si Rawls sul principio di differenza (A Theory of Justice, 2nd ed. p. 88, trad. it. p. 112).

L’argomento è il seguente:

Argomento:

  1. Le diseguaglianze di reddito, ricchezza e autorità tra famiglie della generazione 1 compatibili con l’equa eguaglianza di opportunità e il principio di differenza (D1) sono giuste (da b e c)
  2. Poiché le diseguaglianze D1 sono giuste (da 1), esse non sono arbitrarie dal punto di vista morale
  3. Le diseguaglianze D1 tra le famiglie della generazione 1 corrispondono alle diverse circostanze sociali d’origine dei figli della generazione 1 (che chiameremo generazione 2)
  4. Le diseguaglianze di opportunità (D2) tra gli individui della generazione 2, dovute alle diverse circostanze sociali d’origine, non derivano da diseguaglianze arbitrarie dal punto di vista morale (da 2 e 3)
  5. Non è giusto rimuovere le diseguaglianze (D2) in quanto dovute a fattori moralmente arbitrari (da a e 4)
  6. L’Equa Eguaglianza di Opportunità esclude diseguaglianze di opportunità dovute alle diverse circostanze sociali d’origine
  7. La funzione dell’Equa Eguaglianza di Opportunità, dal punto di vista della giustizia, non può essere quella di ridurre diseguaglianze ingiuste in quanto moralmente arbitrarie (da 5 e 6)

Ma allora, qual’è lo scopo dell’Equa Eguaglianza di Opportunità? (Si noti che questo argomento crea problema all’interpretazione dualista della giustizia come equità.)

Secondo me l’argomento non è valido (anche se sono d’accordo con la conclusione, per ragioni diverse). Siete d’accordo? Se si, secondo voi dove sta l’errore?

Due interpretazioni dell’eguaglianza democratica

A ben vedere, sono possibili due interpretazioni alternative delle ragioni alla base dell’interpretazione del secondo principio come eguaglianza democratica. Secondo la prima interpretazione, alla base del secondo principio di giustizia vi sarebbero due concezioni fondamentalmente diverse di ciò che rende le diseguaglianze giustificate:
1. la non dipendenza da fattori moralmente arbitrari
2. la reciprocità, cioè il vantaggio per entrambe le parti interessate alla spartizione del prodotto comune, rispetto a una posizione iniziale di eguaglianza.
Secondo la seconda interpretazione, l’unico principio che giustifica è quello della reciprocità. In base a tale interpretazione la riduzione del peso dei fattori moralmente arbitrari (sebbene auspicabile dal punto di vista del principio di riparazione) non sarebbe altro che un effetto collaterale di strutture sociali che sono tenute a soddisfare vincoli morali di tipo essenzialmente diverso.
E voi, per quale interpretazione propendete?