Vorrei mettere su bianco alcune riflessioni che mi sono venute in mente collegando le questioni sul riconoscimento, di cui ci ha parlato la filosofa Elisabetta Galeotti, e i temi di filosofia della medicina e della disabilità dei quali mi sto occupando. Il titolo di questo post è “i paradossi del riconoscimento”, perché ritengo che trattare le caratteristiche particolari degli individui come basi del rispetto porti a conclusioni paradossali. Caratteristiche particolari degli individui sono quelle caratteristiche che ci permettono di distinguerci gli uni dagli altri, come il colore della pelle, il credo politico o religioso, o l’orientamento sessuale. Non sono caratteristiche particolari invece, caratteristiche come la sensienza, la capacità di provare dispiacere per qualcosa, o di prendere decisioni con un certo grado di autonomia, che sono invece ampiamente condivise e dunque non adatte a tale scopo.
Per prima cosa, metto nero su bianco che ho molte difficoltà a capire che cosa voglia dire rispettare un individuo in quanto tale: secondo me il rispetto è sempre rispetto per una caratteristica, o almeno, è rispetto per qualcuno in virtù di una sua caratteristica. Questo perché il rispetto ha sempre una natura concettuale e intenzionale: se uno mi dice che rispetta un individuo in quanto individuo privo di caratteristiche, io non riesco proprio a capire quello che mi sta dicendo.
Mi pare di capire che la filosofa Elisabetta Galeotti concepisca il rispetto come un atteggiamento che si ha, e che si dovrebbe avere, anche per le caratteristiche particolari (o addiritura, distintive) degli individui. Fino a qui, sento di essere d’accordo con lei. Mi pare che sia giusto rispettare egualmente, ovvero conferire eguale dignità a caratteristiche quali: essere uomo o donna, bianchi o neri, eterosessuali o omosessuali.
Aggiungerei quanto segue: quando noi riconosciamo eguale dignità a determinate caratteristiche umane, smettiamo di considerare gli svantaggi che derivano da tali caratteristiche come un problema dell’individuo, e iniziamo a vederli come un problema della società nel suo complesso. Ad esempio, se riscontriamo che il sesso, il colore della pelle, o l’inclinazione sessuale di un individuo è correlato a diseguaglianze di opportunità o benessere, riteniamo che sia giusto modificare la società in modo da porre rimedio a tali diseguaglianze.
Ma questo non è tutto: oltre a impegnarci moralmente a cambiare la società al fine di ottenere la scomparsa di tali diseguaglianze, consideriamo inaccettabile ottenere tale risultato attraverso l’eliminazione delle caratteristiche in questione dalla nostra società. (Per i più puntigliosi: l’eliminazione delle loro esemplificazioni). Ad esempio, non riterremmo accettabile eliminare lo svantaggio correlato alla pelle scura perseguendo una politica che porti alla scomparsa di individui con tali caratteristiche. Questo principio vale a prescindere da considerazioni attinenti alla sfera della protezione dei diritti individuali: se in una società si dessero le condizioni che porterebbero la maggiorparte dei neri a desiderare di avere un figlio bianco, e i mezzi sufficienti a realizzare tale proposito, troveremmo discutibile (a dir poco) la concessione di tale liberta, almeno fino a quando non avremmo rimosso le condizioni alla base di tale desiderio.
Il problema sorge quando iniziamo a considerare caratteristiche come la sordità o altre correlate a disabilità varie. In base all’analogia con il colore della pelle, l’eguale rispetto per la sordità implica non solo la volontà di riformare la società in modo da scongiurare le diseguaglianze dovute al possesso di tale caratteristica, ma anche quella di impedire che tale obiettivo venga raggiunto attraverso una politica eugenetica, o la semplice concessione di una libertà che porti a risultati equivalenti.
(Mi si risponderà che l’analogia non ha senso, in quanto la sordità è una malattia, la pelle scura no. Eppure non è affatto chiaro che sia possibile distinguere la malattia dalla salute senza fare appello a considerazioni di valore. (Io non credo sia possibile). Inoltre il valore che ci permette di distinguere la malattia dalla salute non è neppure quello del benessere, o delle opportunità. Se da un lato è vero che la sordità incide negativamente sul benessere di un individuo, lo stesso può essere detto a proposito della semplice bruttezza, non dovuta a malattie. Inoltre, se da un lato è vero che la pelle scura è compatibile con una vita felicie, dignitosa e foriera di oppotunità, in un contesto sociale adeguato, lo stesso vale a proposito della sordità.)
Veniamo al dunque. Personalmente, sono portato a ritenere che non vi sia niente di illecito nel favorire, o almeno nel permettere, pratiche eugenetiche che portino alla scomparsa sulla faccia della terra degli individui sordi. Se il ragionamento precedente è valido, devo dunque concludere che, per me, la sordità non abbia pari dignità rispetto all’udito normale, a qualsiasi inclinazione sessuale, a qualsiasi colore della peele? Non vedo come possa evitare tale conclusione.
Arriviamo dunque al seguente paradosso: che sia necessario fornire distinzioni potenzialmente controverse tra differenze che sono degne di eguale rispetto e differenze che non lo sono. Si tratta di una conclusione per alcuni aspetti paradossale, dato che le persone tendono a identificarsi con le loro caratteristiche distintive, e quindi sembra che nel mancare di rispettare tali caratteristiche, noi gli facciamo un torto.
Occorre distinguere, naturalmente, il nostro atteggiamento nei confronti del sordo dal nostro atteggiamento nei confronti della sua sordità. Qualcuno penserà di evitare il paradosso sostenendo che sia possibile conferire eguale rispetto a sordi e normalmente udenti, senza con questo adottare lo stesso atteggiamento verso sordità e udito normale.
Ma questa soluzione mi lascia insoddisfatto, per il motivo esposto all’inizio. Infatti secondo me “rispettare il sordo” non vuole dire assolutamente niente, a meno che non venga indicato il fondamento di tale atteggiamento, che è sempre una caratteristica di tale individuo ( ad esempio, la capacità di agire autonomamente o di provare dolore, o dispiacere per qualcosa). Ma a questo punto, siamo tornati al modello Kantiano, nel quale la base del rispetto è una caratteristica piuttosto comune, con la quale è molto improbabile che qualcuno si identifichi a fondo.
Viva Kant?